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Giornata dei nonni e degli anziani: il Messaggio del Papa

Pubblichiamo il testo del Messaggio di Papa Francesco per la II Giornata Mondiale dei Nonni e degli Anziani che quest’anno si celebra il 24 luglio sul tema “Nella vecchiaia daranno ancora frutti” (Sal 92,15). 

Carissima, carissimo!

Il versetto del salmo 92 «nella vecchiaia daranno ancora frutti» (v. 15) è una buona notizia, un vero e proprio “vangelo”, che in occasione della seconda Giornata Mondiale dei Nonni e degli Anziani possiamo annunciare al mondo. Esso va controcorrente rispetto a ciò che il mondo pensa di questa età della vita; e anche rispetto all’atteggiamento rassegnato di alcuni di noi anziani, che vanno avanti con poca speranza e senza più attendere nulla dal futuro.

A molti la vecchiaia fa paura. La considerano una sorta di malattia con la quale è meglio evitare ogni tipo di contatto: i vecchi non ci riguardano – pensano – ed è opportuno che stiano il più lontano possibile, magari insieme tra loro, in strutture che se ne prendano cura e ci preservino dal farci carico dei loro affanni. È la “cultura dello scarto”: quella mentalità che, mentre fa sentire diversi dai più deboli ed estranei alla loro fragilità, autorizza a immaginare cammini separati tra “noi” e “loro”. Ma, in realtà, una lunga vita – così insegna la Scrittura – è una benedizione, e i vecchi non sono reietti dai quali prendere le distanze, bensì segni viventi della benevolenza di Dio che elargisce la vita in abbondanza. Benedetta la casa che custodisce un anziano! Benedetta la famiglia che onora i suoi nonni!

La vecchiaia, in effetti, è una stagione non facile da comprendere, anche per noi che già la viviamo. Nonostante giunga dopo un lungo cammino, nessuno ci ha preparato ad affrontarla, sembra quasi coglierci di sorpresa. Le società più sviluppate spendono molto per questa età della vita, ma non aiutano a interpretarla: offrono piani di assistenza, ma non progetti di esistenza. Perciò è difficile guardare al futuro e cogliere un orizzonte verso il quale tendere. Da una parte siamo tentati di esorcizzare la vecchiaia nascondendo le rughe e facendo finta di essere sempre giovani, dall’altra sembra che non si possa far altro che vivere in maniera disillusa, rassegnati a non avere più “frutti da portare”.

La fine dell’attività lavorativa e i figli ormai autonomi fanno venir meno i motivi per i quali abbiamo speso molte delle nostre energie. La consapevolezza che le forze declinano o l’insorgere di una malattia possono mettere in crisi le nostre certezze. Il mondo – con i suoi tempi veloci, rispetto ai quali fatichiamo a tenere il passo – sembra non lasciarci alternative e ci porta a interiorizzare l’idea dello scarto. Così sale al cielo la preghiera del salmo: «Non gettarmi via nel tempo della vecchiaia, / non abbandonarmi quando declinano le mie forze» (71,9).

Ma lo stesso salmo – che rintraccia la presenza del Signore nelle diverse stagioni dell’esistenza – ci invita a continuare a sperare: venuta la vecchiaia e i capelli bianchi, Egli ci darà ancora vita e non lascerà che siamo sopraffatti dal male. Confidando in Lui, troveremo la forza per moltiplicare la lode (cfr vv. 14-20) e scopriremo che diventare vecchi non è solo il deterioramento naturale del corpo o lo scorrere ineluttabile del tempo, ma è il dono di una lunga vita. Invecchiare non è una condanna, ma una benedizione!

Dobbiamo, per questo, vigilare su noi stessi e imparare a condurre una vecchiaia attiva anche dal punto di vista spirituale, coltivando la nostra vita interiore attraverso la lettura assidua della Parola di Dio, la preghiera quotidiana, la consuetudine con i Sacramenti e la partecipazione alla Liturgia. E, insieme alla relazione con Dio, le relazioni con gli altri: anzitutto la famiglia, i figli, i nipoti, ai quali offrire il nostro affetto pieno di premure; come pure le persone povere e sofferenti, alle quali farsi prossimi con l’aiuto concreto e con la preghiera. Tutto questo ci aiuterà a non sentirci meri spettatori nel teatro del mondo, a non limitarci a “ balconear”, a stare alla finestra. Affinando invece i nostri sensi a riconoscere la presenza del Signore, saremo come “olivi verdeggianti nella casa di Dio” (cfr Sal 52,10), potremo essere benedizione per chi vive accanto a noi.

La vecchiaia non è un tempo inutile in cui farci da parte tirando i remi in barca, ma una stagione in cui portare ancora frutti: c’è una missione nuova che ci attende e ci invita a rivolgere lo sguardo al futuro. «La speciale sensibilità di noi vecchi, dell’età anziana per le attenzioni, i pensieri e gli affetti che ci rendono umani, dovrebbe ridiventare una vocazione di tanti. E sarà una scelta d’amore degli anziani verso le nuove generazioni». È il nostro contributo alla rivoluzione della tenerezza, una rivoluzione spirituale e disarmata di cui invito voi, cari nonni e anziani, a diventare protagonisti.

Il mondo vive un tempo di dura prova, segnato prima dalla tempesta inaspettata e furiosa della pandemia, poi da una guerra che ferisce la pace e lo sviluppo su scala mondiale. Non è casuale che la guerra sia tornata in Europa nel momento in cui la generazione che l’ha vissuta nel secolo scorso sta scomparendo. E queste grandi crisi rischiano di renderci insensibili al fatto che ci sono altre “epidemie” e altre forme diffuse di violenza che minacciano la famiglia umana e la nostra casa comune. Di fronte a tutto ciò, abbiamo bisogno di un cambiamento profondo, di una conversione, che smilitarizzi i cuori, permettendo a ciascuno di riconoscere nell’altro un fratello. E noi, nonni e anziani, abbiamo una grande responsabilità: insegnare alle donne e gli uomini del nostro tempo a vedere gli altri con lo stesso sguardo comprensivo e tenero che rivolgiamo ai nostri nipoti. Abbiamo affinato la nostra umanità nel prenderci cura del prossimo e oggi possiamo essere maestri di un modo di vivere pacifico e attento ai più deboli. La nostra, forse, potrà essere scambiata per debolezza o remissività, ma saranno i miti, non gli aggressivi e i prevaricatori, a ereditare la terra (cfr Mt 5,5).

Uno dei frutti che siamo chiamati a portare è quello di custodire il mondo. «Siamo passati tutti dalle ginocchia dei nonni, che ci hanno tenuti in braccio»; ma oggi è il tempo di tenere sulle nostre ginocchia – con l’aiuto concreto o anche solo con la preghiera –, insieme ai nostri, quei tanti nipoti impauriti che non abbiamo ancora conosciuto e che magari fuggono dalla guerra o soffrono per essa. Custodiamo nel nostro cuore – come faceva San Giuseppe, padre tenero e premuroso – i piccoli dell’Ucraina, dell’Afghanistan, del Sud Sudan…

Molti di noi hanno maturato una saggia e umile consapevolezza, di cui il mondo ha tanto bisogno: non ci si salva da soli, la felicità è un pane che si mangia insieme. Testimoniamolo a coloro che si illudono di trovare realizzazione personale e successo nella contrapposizione. Tutti, anche i più deboli, possono farlo: il nostro stesso lasciarci accudire – spesso da persone che provengono da altri Paesi – è un modo per dire che vivere insieme non solo è possibile, ma necessario.

Care nonne e cari nonni, care anziane e cari anziani, in questo nostro mondo siamo chiamati ad essere artefici della rivoluzione della tenerezza! Facciamolo, imparando a utilizzare sempre di più e sempre meglio lo strumento più prezioso che abbiamo, e che è il più appropriato alla nostra età: quello della preghiera. «Diventiamo anche noi un po’ poeti della preghiera: prendiamo gusto a cercare parole nostre, riappropriamoci di quelle che ci insegna la Parola di Dio». La nostra invocazione fiduciosa può fare molto: può accompagnare il grido di dolore di chi soffre e può contribuire a cambiare i cuori. Possiamo essere «la “corale” permanente di un grande santuario spirituale, dove la preghiera di supplica e il canto di lode sostengono la comunità che lavora e lotta nel campo della vita».

Ecco allora che la Giornata Mondiale dei Nonni e degli Anziani è un’occasione per dire ancora una volta, con gioia, che la Chiesa vuole far festa insieme a coloro che il Signore – come dice la Bibbia – ha “saziato di giorni”. Celebriamola insieme! Vi invito ad annunciare questa Giornata nelle vostre parrocchie e comunità; ad andare a trovare gli anziani più soli, a casa o nelle residenze dove sono ospiti. Facciamo in modo che nessuno viva questo giorno nella solitudine. Avere qualcuno da attendere può cambiare l’orientamento delle giornate di chi non si aspetta più nulla di buono dall’avvenire; e da un primo incontro può nascere una nuova amicizia. La visita agli anziani soli è un’opera di misericordia del nostro tempo!

Chiediamo alla Madonna, Madre della Tenerezza, di fare di tutti noi degli artefici della rivoluzione della tenerezza, per liberare insieme il mondo dall’ombra della solitudine e dal demone della guerra. A tutti voi e ai vostri cari giunga la mia Benedizione, con l’assicurazione della mia affettuosa vicinanza. E voi, per favore, non dimenticatevi di pregare per me!

Roma, San Giovanni in Laterano, 3 maggio, festa dei santi Apostoli Filippo e Giacomo

 

(Foto Siciliani-Gennari/SIR)

"Pianeta Città": architetture a confronto tra urbano e globale

“Pianeta Città”, un evento che nasce in partnership con l’Ordine degli Architetti, pianificatori, paesaggisti, conservatori della provincia di Parma, parte con un primo ciclo di sei conferenze ad ingresso libero sulle “architetture a confronto tra urbano e globale” in programma dal 10 maggio al 21 giugno al Ridotto del teatro Magnani di Fidenza (dalle ore 18:00 alle 20:00).
 
Gli incontri, moderati dal prof. Aldo Colonetti, filosofo, storico e teorico dell'arte del design e dell'architettura, già Direttore scientifico dello IED (Istituto Europeo Design), sono così programmati:
 
Si inizia martedì 10 maggio con Annalisa De Curtis, docente di architettura presso il Politecnico di Milano e management del museo e dei servizi museali alla Cattolica. Saggista, medaglia d’oro all’Architettura italiana, è suo lo stupendo progetto del Memoriale della Shoah di Milano. De Curtis interverrà sul tema “Il Museo come spazio pubblico urbano”
Il 17 maggio sarà la volta di Guido Morpurgo, architetto e collaboratore ventennale di Vittorio Gregotti, del quale cura come responsabile scientifico il Fondo Bibliografico. A Fidenza, Morpurgo porterà una lectio su “I tempi lunghi della città”, ovviamente basata sull’insegnamento del Gregotti.
Con Alfonso Femia, il 24 maggio, avremo un grande interprete del key concept strategico della rigenerazione urbana, attivo con numerosi progetti tra Francia e Italia. Proprio alla riqualificazione dei docks di Marsiglia, celebrata in tutto il mondo, Femia legherà il suo intervento sulle “Trasformazioni urbane possibili”.
Il 31 maggio arriverà l’architetto Mirko Zardini, protagonista di una ricerca sulla mixité che lega architettura e città contemporanea declinata nel dialogo su “Le città nel mondo”, esplorando le sue costanti e le sue variabili.
Il 14 giugno interverrà Andrea Cancellato, presidente della prestigiosa istituzione Federculture, ovvero la Federazione delle aziende e degli Enti italiani di gestione di cultura, turismo, sport e tempo libero. Colonetti e Cancellato dialogheranno su “I consumi culturali delle città”.
Il primo ciclo di “Pianeta Città” si concluderà il 21 giugno con un un confronto tra cinque architetti protagonisti altrettanti cantieri di rigenerazione che hanno inciso e incideranno sul rango urbanistico di Fidenza: Giovanni Del Boca (ex Gesuiti), Andrea Oliva (area delle bonifiche lungo via Marconi, restauro di Palazzo Porcellini e progetto dell’hub Marconi), Giampiero Peia (mediateca alle ex Orsoline), Luca Astorri (progetto del nuovo headquarter Sdm) e Paolo Giandebiaggi (area ex Ospedale).
Ha sottolineato il sindaco di Fidenza Andrea Massari:
“Un nuovo Piano urbanistico generale (Pug) non nasce facendo un esercizio di regole e planimetrie ma utilizzando per Fidenza la bussola che indica storia, presente e futuro. Significa imparare da chi ha già spostato più in alto l’asticella, mettendo allo stesso tavolo l’ambizione per una Fidenza ancora più forte e bella e il pragmatismo migliore per centrare gli obiettivi. Un’opportunità per tecnici e cittadini di cogliere gli stimoli che Fidenza può fare propri nel cammino che porterà al Piano urbanistico generale”.
L'assessore all’Urbanistica Maria Pia Bariggi ha così commentato:
“L’idea di una analisi di modelli insediativi deriva dalla necessità di investigare le possibili forme che la nostra, come le altre città, possono assumere in una sempre più rapida trasformazione. Gli spazi pubblici urbani, i lunghi tempi della città, le trasformazioni, i consumi culturali sono gli ambiti con i quali dovremo confrontarci per progettare il contemporaneo comparando forme, uso del suolo, densità e utopie affrontando il progetto di città o, meglio, parti compiute di città. Ci aiuterà una visione ampia dell’esperienza e della ricerca”.
 
I professionisti che parteciperanno potranno avere 2 crediti formativi professionali (Cfp) ad ogni incontro (quindi 12 Cfp per chi seguirà tutto il programma in calendario). 

Gigliola Alvisi per la Direzione Didattica Ilaria Alpi di Fidenza

Gigliola Alvisi on line per la 
Direzione Didattica Ilaria Alpi
Importanti appuntamenti degli alunni con la scrittrice di libri per ragazzi
Anche quest'anno la Direzione Didattica "Ilaria Alpi" di Fidenza ha organizzato il "Progetto Lettura", al termine del quale le classi incontreranno online un autore di libri per ragazzi.
Dopo Alberto Cola con il suo libro "Asad e il segreto dell'acqua", che ha regalato forti emozioni grazie all'avventura nel deserto di tre ragazzi, quest'anno sarà la volta di Gigliola Alvisi e della sua vivace penna.
Ben diciannove classi della scuola saranno coinvolte nella lettura di diversi libri della Alvisi: tra una mummia in fuga, un misterioso lupo e le avventure di alcuni simpatici bambini, vengono affrontati con semplicità e un pizzico di ironia argomenti importanti come la diversità, l'amicizia e i rapporti familiari.
Senza mai eccedere o diventare banale, la Alvisi ci stupisce con la sua scrittura delicata, che sa affrontare grandi tematiche con semplicità e creatività.
L’autrice è in grado di coinvolgere il lettore stimolandone l’interesse, appassionandolo e tenendolo incollato al libro fino al raggiungimento del finale a sorpresa.
I ragazzi delle classi coinvolte avranno modo di intervistare l'autrice dei libri letti con i loro insegnanti e potranno soddisfare le proprie curiosità in merito al lavoro dello scrittore, a come superare il panico della pagina bianca e a come trovare le idee giuste per scrivere.
 
Inoltre potranno chiedere informazioni sulla giornalista Ilaria Alpi, alla quale è intitolata la Direzione Didattica, e sul suo reportage in Somalia realizzato assieme al collega e amico Miran Hrovatin.
La Alvisi, infatti, è autrice del libro "Ilaria Alpi. La ragazza che voleva raccontare l'inferno": un testo colmo di parole coraggiose e ricco di speranza per un mondo migliore.
 
Degna conclusione di un anno di lavoro nel quale gli alunni hanno affrontato diverse tipologie testuali, hanno analizzato storie, sintetizzato racconti e prodotto pagine di riflessioni personali.
Il 16 e il 17 maggio, dopo il saluto del Dirigente Scolastico Lorenza Pellegrini e la sapiente e preziosa regia dell'insegnante Giordana Tricò, referente della progettualità, le scuole primarie "De Amicis" e "Ongaro" saranno animate da forti emozioni grazie a questo incontro, nella speranza di farsi svelare da Gigliola Alvisi la "ricetta segreta" per scrivere un libro.
 
A.P.

Giornata di Preghiera per le Vocazioni: il Messaggio di Papa Francesco

L’8 maggio 2022, IV Domenica di Pasqua, si celebra la 59a Giornata Mondiale di Preghiera per le Vocazioni sul tema “Chiamati a edificare la famiglia umana”. Pubblichiamo di seguito il Messaggio che il Santo Padre Francesco invia per l’occasione ai Vescovi, ai sacerdoti, ai consacrati ed ai fedeli di tutto il mondo. 

 

Cari fratelli e sorelle!

Mentre in questo nostro tempo soffiano ancora i venti gelidi della guerra e della sopraffazione e assistiamo spesso a fenomeni di polarizzazione, come Chiesa abbiamo avviato un processo sinodale: sentiamo l’urgenza di camminare insieme coltivando le dimensioni dell’ascolto, della partecipazione e della condivisione. Insieme a tutti gli uomini e le donne di buona volontà vogliamo contribuire a edificare la famiglia umana, a guarirne le ferite e a proiettarla verso un futuro migliore. In questa prospettiva, per la 59a Giornata Mondiale di Preghiera per le Vocazioni, desidero riflettere con voi sull’ampio significato della “vocazione”, nel contesto di una Chiesa sinodale che si pone in ascolto di Dio e del mondo.

Chiamati a essere tutti protagonisti della missione

La sinodalità, il camminare insieme è una vocazione fondamentale per la Chiesa, e solo in questo orizzonte è possibile scoprire e valorizzare le diverse vocazioni, i carismi e i ministeri. Al tempo stesso, sappiamo che la Chiesa esiste per evangelizzare, uscendo da sé stessa e spargendo il seme del Vangelo nella storia. Pertanto, tale missione è possibile proprio mettendo in sinergia tutti gli ambiti pastorali e, prima ancora, coinvolgendo tutti i discepoli del Signore. Infatti, «in virtù del Battesimo ricevuto, ogni membro del Popolo di Dio è diventato discepolo missionario (cfr Mt 28,19). Ciascun battezzato, qualunque sia la sua funzione nella Chiesa e il grado di istruzione della sua fede, è un soggetto attivo di evangelizzazione» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 120). Bisogna guardarsi dalla mentalità che separa preti e laici, considerando protagonisti i primi ed esecutori i secondi, e portare avanti la missione cristiana come unico Popolo di Dio, laici e pastori insieme. Tutta la Chiesa è comunità evangelizzatrice.

Chiamati a essere custodi gli uni degli altri e del creato

La parola “vocazione” non va intesa in senso restrittivo, riferendola solo a coloro che seguono il Signore sulla via di una particolare consacrazione. Tutti siamo chiamati a partecipare della missione di Cristo di riunire l’umanità dispersa e di riconciliarla con Dio. Più in generale, ogni persona umana, prima ancora di vivere l’incontro con Cristo e abbracciare la fede cristiana, riceve con il dono della vita una chiamata fondamentale: ciascuno di noi è una creatura voluta e amata da Dio, per la quale Egli ha avuto un pensiero unico e speciale, e questa scintilla divina, che abita il cuore di ogni uomo e di ogni donna, siamo chiamati a svilupparla nel corso della nostra vita, contribuendo a far crescere un’umanità animata dall’amore e dall’accoglienza reciproca. Siamo chiamati a essere custodi gli uni degli altri, a costruire legami di concordia e di condivisione, a curare le ferite del creato perché non venga distrutta la sua bellezza. Insomma, a diventare un’unica famiglia nella meravigliosa casa comune del creato, nell’armonica varietà dei suoi elementi. In questo senso ampio, non solo i singoli, ma anche i popoli, le comunità e le aggregazioni di vario genere hanno una “vocazione”.

Chiamati ad accogliere lo sguardo di Dio

In questa grande vocazione comune, si inserisce la chiamata più particolare che Dio ci rivolge, raggiungendo la nostra esistenza con il suo Amore e orientandola alla sua meta ultima, a una pienezza che supera persino la soglia della morte. Così Dio ha voluto guardare e guarda alla nostra vita.

Si attribuiscono a Michelangelo Buonarroti queste parole: «Ogni blocco di pietra ha al suo interno una statua ed è compito dello scultore scoprirla». Se questo può essere lo sguardo dell’artista, molto più Dio ci guarda così: in quella ragazza di Nazaret ha visto la Madre di Dio; nel pescatore Simone figlio di Giona ha visto Pietro, la roccia sulla quale edificare la sua Chiesa; nel pubblicano Levi ha ravvisato l’apostolo ed evangelista Matteo; in Saulo, duro persecutore dei cristiani, ha visto Paolo, l’apostolo delle genti. Sempre il suo sguardo d’amore ci raggiunge, ci tocca, ci libera e ci trasforma facendoci diventare persone nuove.

Questa è la dinamica di ogni vocazione: siamo raggiunti dallo sguardo di Dio, che ci chiama. La vocazione, come d’altronde la santità, non è un’esperienza straordinaria riservata a pochi. Come esiste la “santità della porta accanto” (cfr Esort. ap. Gaudete et exsultate, 6-9), così anche la vocazione è per tutti, perché tutti sono guardati e chiamati da Dio.

Dice un proverbio dell’Estremo Oriente: «Un sapiente, guardando l’uovo, sa vedere l’aquila; guardando il seme intravvede un grande albero; guardando un peccatore sa intravvedere un santo». Così ci guarda Dio: in ciascuno di noi vede delle potenzialità, talvolta ignote a noi stessi, e durante tutta la nostra vita opera instancabilmente perché possiamo metterle a servizio del bene comune.

La vocazione nasce così, grazie all’arte del divino Scultore che, con le sue “mani” ci fa uscire da noi stessi, perché si stagli in noi quel capolavoro che siamo chiamati a essere. In particolare, la Parola di Dio, che ci libera dall’egocentrismo, è capace di purificarci, illuminarci e ricrearci. Mettiamoci allora in ascolto della Parola, per aprirci alla vocazione che Dio ci affida! E impariamo ad ascoltare anche i fratelli e le sorelle nella fede, perché nei loro consigli e nel loro esempio può nascondersi l’iniziativa di Dio, che ci indica strade sempre nuove da percorrere.

Chiamati a rispondere allo sguardo di Dio

Lo sguardo amorevole e creativo di Dio ci ha raggiunti in modo del tutto singolare in Gesù. Parlando del giovane ricco, l’evangelista Marco annota: «Gesù fissò lo sguardo su di lui, lo amò» (10,21). Su ciascuno e ciascuna di noi si posa questo sguardo di Gesù pieno di amore. Fratelli e sorelle, lasciamoci toccare da questo sguardo e lasciamoci portare da Lui oltre noi stessi! E impariamo a guardarci anche l’un altro in modo che le persone con cui viviamo e che incontriamo – chiunque esse siano – possano sentirsi accolte e scoprire che c’è Qualcuno che le guarda con amore e le invita a sviluppare tutte le loro potenzialità.

La nostra vita cambia, quando accogliamo questo sguardo. Tutto diventa un dialogo vocazionale, tra noi e il Signore, ma anche tra noi e gli altri. Un dialogo che, vissuto in profondità, ci fa diventare sempre più quelli che siamo: nella vocazione al sacerdozio ordinato, per essere strumento della grazia e della misericordia di Cristo; nella vocazione alla vita consacrata, per essere lode di Dio e profezia di nuova umanità; nella vocazione al matrimonio, per essere dono reciproco e generatori ed educatori della vita. In generale, in ogni vocazione e ministero nella Chiesa, che ci chiama a guardare gli altri e il mondo con gli occhi di Dio, per servire il bene e diffondere l’amore, con le opere e con le parole.

Vorrei qui menzionare, al riguardo, l’esperienza del dott. José Gregorio Hernández Cisneros. Mentre lavorava come medico a Caracas in Venezuela, volle farsi terziario francescano. Più tardi, pensò di diventare monaco e sacerdote, ma la salute non glielo permise. Comprese allora che la sua chiamata era proprio la professione medica, nella quale egli si spese in particolare per i poveri.  Allora, si dedicò senza riserve agli ammalati colpiti dall’epidemia di influenza detta “spagnola”, che allora dilagava nel mondo. Morì investito da un’automobile, mentre usciva da una farmacia dove aveva procurato medicine per una sua anziana paziente. Testimone esemplare di cosa vuol dire accogliere la chiamata del Signore e aderirvi in pienezza, è stato beatificato un anno fa.

Convocati per edificare un mondo fraterno

Come cristiani, siamo non solo chiamati, cioè interpellati ognuno personalmente da una vocazione, ma anche con-vocati. Siamo come le tessere di un mosaico, belle già se prese ad una ad una, ma che solo insieme compongono un’immagine. Brilliamo, ciascuno e ciascuna, come una stella nel cuore di Dio e nel firmamento dell’universo, ma siamo chiamati a comporre delle costellazioni che orientino e rischiarino il cammino dell’umanità, a partire dall’ambiente in cui viviamo. Questo è il mistero della Chiesa: nella convivialità delle differenze, essa è segno e strumento di ciò a cui l’intera umanità è chiamata. Per questo la Chiesa deve diventare sempre più sinodale: capace di camminare unita nell’armonia delle diversità, in cui tutti hanno un loro apporto da dare e possono partecipare attivamente.

Quando parliamo di “vocazione”, pertanto, si tratta non solo di scegliere questa o quella forma di vita, di votare la propria esistenza a un determinato ministero o di seguire il fascino del carisma di una famiglia religiosa o di un movimento o di una comunità ecclesiale; si tratta di realizzare il sogno di Dio, il grande disegno della fraternità che Gesù aveva nel cuore quando ha pregato il Padre: «Che tutti siano una cosa sola» (Gv 17,21). Ogni vocazione nella Chiesa, e in senso ampio anche nella società, concorre a un obiettivo comune: far risuonare tra gli uomini e le donne quell’armonia dei molti e differenti doni che solo lo Spirito Santo sa realizzare. Sacerdoti, consacrate e consacrati, fedeli laici camminiamo e lavoriamo insieme, per testimoniare che una grande famiglia umana unita nell’amore non è un’utopia, ma è il progetto per il quale Dio ci ha creati.

Preghiamo, fratelli e sorelle, perché il Popolo di Dio, in mezzo alle vicende drammatiche della storia, risponda sempre più a questa chiamata. Invochiamo la luce dello Spirito Santo, affinché ciascuno e ciascuna di noi possa trovare il proprio posto e dare il meglio di sé in questo grande disegno!

Roma, San Giovanni in Laterano, 8 maggio 2022, IV Domenica di Pasqua

Papa Francesco

La storia dell'effigie della Madonna nel quartiere Oriola

di Annarita Cacciamani

 

Lunedì 2 maggio è iniziata la recita del Santo Rosario presso il quartiere Oriola di Fidenza, davanti all’effige della Madonna posta in una nicchia in via Aimi. Il Rosario verrà recitato ogni sera alle ore 20 fino alla fine del mese di maggio, il mese dedicato a Maria Santissima, e sarà condotto da Cristina Rubini.

Lunedì è stata ricordata anche Adelaide Mazza, sorella del vescovo emerito di Fidenza mons. Carlo Mazza, scomparsa pochi giorni fa. Adelaide, durante la sua permanenza a Fidenza, era solita partecipare alla recita del Rosario al quartiere Oriola.

La tradizione della recita del Santo Rosario all’Oriola ha una storia di oltre un secolo. A raccontarla è Nino Secchi che oggi porta avanti questo momento di fede e devozione.

La presenza della “Madonna del dito”, nel quartiere Oriola, ha superato abbondantemente il secolo, come datata è la tradizione della recita del Santo Rosario, per tutto il mese di maggio, dinanzi la sacra effige.

“Madonna del dito”, pare uno strano appellativo per la Santa Vergine, ma questo nasce dal ritrovamento della statua tra le macerie causate dal bombardamento dell’ultima guerra. L’effige della Madonna venne recuperata dall’oriolano Ugo Secchi (che come ogni borghigiano aveva uno stranome: “Bätilanä”): miracolosamente integra, se non mancante di un dito e, da qui, il curioso e singolare identificativo.

La statua raffigurante la Madre Celeste, con in braccio il bambino Gesù’, è in legno, certamente non pregiato e non ha sicuramente un valore artistico, ma grande è il valore che la gente d’Oriola Le ha da sempre attribuito. La si può far risalire alla fine dell’Ottocento. L’effige della Madonna ha sempre trovato posto in una nicchia collocata nel muro di cinta della vecchia e rinomata "Tipografia Mattioli" che, dall’incrocio con via Cavour, si estendeva sino alla fine, piu’ o meno, di via Vito Aimi.

Senza titolo

(Foto del 1959. Siamo in via Vito Aimi (Oriola). A destra la vecchia Tipografia Mattioli e, verso il fondo della foto, la nicchia in cui era posta la Madonna dell’Oriola (cornice bianca) poi il portone in legno e la casa delle sorelle Piroli (come descritto nel breve racconto).

 

A mia memoria le cure della nicchia e dell'effige della Madonna – nel dopoguerra – erano assolte dalle sorelle Adele e Maria Piroli, la cui abitazione era proprio contigua al portone in legno che delimitava il cortile della tipografia. Maria Piroli, signorile e molto distinta, lavorava nella Segreteria del Municipio e, con la sorella Adele, si preoccupava dei fiori e dei ceri che venivano posti in una specie di turibolo metallico che, tramite una catena e una carrucola, si abbassava e veniva poi rimesso dinanzi la Madonna una volta acceso il “lumino”. Ricordiamo anche la signora Amelia, sposata Maresti, sorella del capo delle guardie municipali Signor Maggi (la famiglia proveniva da San Giovanni in Persiceto). Anche le sue cure e la sua dedizione alla Madonna erano veramente dettate da una grande fede che, oggi, raramente possiamo ritrovare, specialmente tra le nuove generazioni.

Ristrutturata la "Tipografia Mattioli" (ne rimase il nome, ma ai Mattioli subentrarono i nuovi gestori: Dodi, Franceschetti e Negrotti), la parte prospicente via Vito Aimi vide sorgere il palazzo, non ancora tinteggiato, nel quale si riservò una piccola nicchia in cui alloggiare la statua della Madonna: uno spazio davvero minuscolo se paragonato all’antica collocazione (per la precisione siamo nel 1963).

L’importante, comunque, per il quartiere è la presenza della Madonna indipendentemente dallo spazio a Lei riservato: una presenza che identifica la stessa gente del quartiere che ha sempre rivolto le proprie preghiere a quella “effige”, considerando appunto la Madonna del Dito come protettrice del quartiere stesso.

Col passare del tempo, come in tutta la città, l’Oriola ha subito la “multi etnia” dilagante, ma la presenza della Madonna è significativa e, oggi, rappresenta anche una tradizione, un riferimento ormai storico che non deve andare perduto; un legame con un passato che, purtroppo, il divenire del tempo pare voler cancellare.

Negli ultimi decenni ad animare il Santo Rosario si sono alternate diverse persone: dopo le sorelle Piroli, ricordo la signora Gilda Barbiero, sposata Pertusi che, col marito Albino, gestiva la tabaccheria in via Cavour, quella verso piazza Garibaldi. Poi da anni e sino ad oggi Cristina Rubini che, nonostante gli impegni davvero pressanti del suo lavoro, è una presenza e una certezza veramente importante.

La Messa da Requiem di Verdi

La Messa da Requiem di Verdi

di

Dino Rizzo

 

Per addentrarsi nel Requiem di Verdi ritengo utile conoscere le descrizioni della prima esecuzione avvenuta il 22 maggio 1874, venerdì, «mattina grigia e piovosa», alle ore 11 in San Marco a Milano. Orario insolito e obbligato perché avvenuta all’interno di una Messa, che all’epoca non poteva essere celebrata dopo mezzogiorno. L’impostazione della liturgia fu annunciata da La Lombardia: «L’area del tempio rimane divisa in tre parti: quella destinata al clero, quella alla musica, e quella concessa al pubblico. Al clero è riservato il presbiterio in cui sarà celebrato il rito funebre; pontificherà in questa circostanza mons. Giuseppe Calvi, preposto del Capitolo metropolitano. La musica occupa l’intero spazio sotto la cupola, compreso il braccio sinistro della crociera. I musicisti sono quasi per intero collocati a sinistra e dall’opposto lato i cantori, uomini e donne; per queste ultime fu convenuto l’intero vestito nero e il capo coperto da un ampio velo di lutto». Espediente necessario per nascondere alla vista dei fedeli le donne che la disciplina ecclesiastica escludeva dal servizio liturgico e corale. Rito che La nuova Illustrazione universale del 14 giugno 1874 definì «messa secca, cioè senza consacrazione del pane e del vino» (l’attuale Liturgia della Parola) in cui la collocazione degli artisti voluta da Verdi pose al centro l’altare e il celebrante con paramenti liturgici che il critico Edoardo Spagnolo descrisse come «magnifiche vesti» nella recensione pubblicata da La Gazzetta di Milano il 26 maggio 1874. Una immagine imponente che infastidì lo stesso Spagnolo, ateo dichiarato, che preferì recensire il Requiem dopo averlo riascoltato al Teatro alla Scala la sera successiva: «ecco perché non ne ho parlato subito, e parlo invece adesso dopo aver udito la Messa al teatro alla Scala, non più in luogo dove si adora il Salvatore, che soffre per l’umanità e si venerano le sante persone alla cui intercessione si rivolge il fedele; ma tra le profane pareti d’un teatro dove la luce pallida e melanconica dei ceri è surrogata dalla luce brillante delle fiammelle a gas, dove non sento i profumi dell’incenso ma quelli plastici della bellezza che si mostra dai cento palchi; e la mia intelligenza è più libera e i sensi non intorpiditi». Svincolato pertanto da influenze esterne, Edoardo Spagnolo scrisse: «la Messa da Requiem mi rappresenta sempre l’arte posta a servizio d’un principio che non so accettare, ma quelle melodie, frutto di un poderoso ingegno, sono pur sempre la glorificazione, l’apoteosi della fede». Spagnolo desiderava affermare che Verdi era un credente? Non penso. Ritengo, invece, che egli volesse asserire che Verdi indagò in profondità i significati dei testi liturgici e che li seppe sapientemente amplificare con la musica per trasportarli agli ascoltatori. Manzoni, uomo di fede, non poteva ricevere omaggio migliore.

È utile conoscere anche quanto Verdi scrisse per ottenere una corretta comprensione ed esecuzione del Requiem. Il 26 aprile 1874, durante la preparazione, Verdi scrisse a Ricordi: «Come! Non avete ancora cominciato le prove dei Cori? Ah vi fidate un po’ troppo! Capisco che sarà facile finché vorrete, ma vi sono intendimenti di espressione, e soprattutto di carattere che non sono facili. Voi capirete meglio di me che non bisogna cantare questa Messa come si canta un’opera, e quindi i coloriti che possono essere buoni al Teatro, non mi accontenteranno affatto affatto». A distanza di quasi un anno dalla prima, il 5 marzo 1875 Verdi si raccomandò al mezzosoprano Waldmann per il quale scrisse un nuovo brano sulle parole «Liber scriptus»: «voi sapete che ho scritto un solo per voi. È facile facilissimo come nota e come musica, ma sapete che vi sono sempre delle intenzioni su cui bisogna pensare». È fondamentale, quindi, conoscere i significati dei testi del rito funebre cattolico.

Nell’iniziale andamento discendente dei violoncelli nel «Requiem» è identificabile il prostrarsi a terra del fedele che riconosce la sua condizione di peccatore preparandosi all’invocazione del riposo eterno per tutti i defunti. Diverse sono le note che questa melodia ha in comune con il corale Aus tiefer Noth schrei’ ich zu dir (salmo 130 De profundis) e, nel coro successivo, è coinvolgente l’elaborazione della melodia «Te decet hymnus» della Messa da Requiem gregoriana: la preparazione personale e la supplica intima sono seguite dal canto collettivo dell’Inno nel rispetto della tradizione cattolica: il coro a cappella. La sofferenza derivante dalla consapevolezza della propria situazione è riscontrabile nel «Kyrie» dalla sovrapposizione dell’andamento ascendente dell’invocazione del perdono dei peccati affidato al coro con il cromatismo discendente affidato agli strumenti gravi dell’orchestra: una moltitudine di anime che anelano in corpi che si consumano.

Il vortice di suoni e i colpi di grancassa che caratterizzano l’inizio del «Dies irae», descrivono la Sequenza che precede il Vangelo. È la morsa di fuoco che divora e fa cadere Babilonia, la città simbolo del male contrapposta alla Gerusalemme celeste. Appartiene a esso anche il suono avvolgente e trionfante delle trombe del «Tuba mirum» che sembra voler condurre gli ascoltatori innanzi al trono del Giudice insieme ai defunti risorti. Il successivo movimento claudicante affidato all’orchestra nel «Mors stupebit» ben concretizza nella mente dell’ascoltatore l’allontanamento definitivo della morte introdotta nel mondo dal diavolo, per invidia (Sapienza 2: 23-24). Nel «Dies irae» mi piace ricordare anche altre situazioni. Nel «Liber scriptus» la ripetizione della parola «Nil», isolata con pause sempre più angosciate, ci ricorda che nessun espediente potrà nascondere le nostre mancanze e che nulla rimarrà impunito. Nel «Lacrimosa» il movimento cadenzato dei violoncelli e contrabbassi amplifica lo stato d’animo dei dannati, ora consapevoli della pena eterna che li attende, mentre le appoggiature del soprano nel registro acuto rievocano il dispiacere degli eletti nell’immaginare le imminenti sofferenze dei peccatori. Anche nel «Dies irae» la presenza del canto gregoriano è affascinante: il frammento musicale che funge da collegamento di alcune sezioni, infatti, deriva dall’elaborazione dell’omonimo brano della Messa da requiem gregoriana.

Non si dimentichi la divisione del coro in due blocchi e il cromatismo orchestrale nel «Sanctus» che simboleggiano tutti gli elementi del cielo e della terra che uniti lodano il Signore, Dio dell’universo. Organico e procedimento musicale utilizzati più avanti negli anni per il «Te Deum».

Il movimento parallelo in ottava dei solisti nell’«Agnus Dei» esprime il concetto teologico della doppia natura di Gesù, l’Agnello di Dio: quella divina affidata al registro acuto del soprano e quella umana affidata al registro mediano del contralto. Affascinante è la struttura del brano che richiama la disposizione delle immagini nelle tele raffiguranti la crocifissione. Il mio personale pensiero corre al dipinto del 1579 di Vincenzo Campi collocato nell’abside dell’Oratorio della Santissima Trinità di Busseto dove Verdi e Margherita Barezzi si unirono in matrimonio nel 1836. La melodia della doppia natura di Gesù è sviluppata sull’immagine rarefatta della Trinità rappresentata dalle tre sezioni del brano. Nella prima invocazione l’Agnello di Dio è messo in relazione all’eterno Padre, la cui maestosa austerità è rappresentata dal coro e dell’orchestra che eseguono all’unisono la melodia dei solisti. Nella seconda, in Do minore - caratterizzata dai sospiri affidati al flauto e al clarinetto - seguita dalla serena risposta corale in Do maggiore, si avverte la sofferenza provata da Dio nella vita terrena, nelle vesti di Figlio, e il suo ritorno al cielo. Nella terza sezione l’etereo movimento dei tre flauti sovrapposti ai solisti ricorda lo Spirito santo.

Nell’introduzione del «Lux aeterna», l’antifona alla comunione (che nel rito del 22 maggio 1874 non fu distribuita), il tremolo dei violini imita l’instabilità della luce delle candele, la debole luce che l’uomo possedeva per illuminare i riti religiosi, condizione citata anche da Spagnolo nella sua recensione. Il brano è caratterizzato dall’assenza del soprano, voce acuta che abbiamo visto simboleggiare il divino, e dalla presenza nel registro grave del ritmo caratteristico delle marce funebri. Elementi che ricordano la misera condizione umana.

È quindi cantato il «Libera Me», preghiera per la salvezza personale, in sostituzione de «In paradisum deducant Te Angeli» cantato nella Messa del funerale. Nella parte del soprano solista, una persona che emerge dalla collettività, mi è spontaneo intravedere il Maestro, così come lo avverto nella «Voce sola» nascosta alla vista del pubblico al termine del «Te Deum». Coinvolgente, per coloro che conoscono il Libro dell’Apocalisse, è la ripetizione del «Requiem» iniziale della Messa nella parte centrale di questo brano. La delicatezza della nuova versione a cappella e in una tonalità più alta rispetto alla precedente, richiama alla mente la frase del Supremo Giudice, pronunciata dal suo trono nell’ora del giudizio universale, dopo la condanna dei peccatori al fuoco eterno e la discesa dal cielo della nuova Gerusalemme: «Ecco, io faccio nuove tutte le cose». L’angoscia iniziale è trasfigurata in un’estatica serenità perché nella nuova città «non vi sarà più morte, né lutto, né grido, né pena esisterà più, perché il primo mondo è sparito». Dopo una «lunga pausa», quasi a indicare il ritorno alla realtà, il soprano manifesta nuovamente la sua angoscia provocata dal timore di non avere accesso al paradiso. Le parole finali «Libera me, libera me», pianissimo in unisono con il coro, riconducono il pensiero all’immagine del fedele prostrato a terra, come all’inizio del «Requiem»: là per domandare la salvezza di tutti i defunti, qui per supplicare la propria.

Fra le recensioni che seguirono le prime esecuzioni milanesi, oltre alle già citate parole di Spagnolo «quelle melodie sono pur sempre la glorificazione, l’apoteosi della fede», meritano la menzione due frammenti degli articoli apparsi su La Lombardia e sul Pungolo. Frasi che accostate aiutano a comprendere questa ricerca delle «intenzioni su cui bisogna pensare» all’interno del Requiem: «Queste armoniose melodie di Verdi, senza vestire quel convenzionale carattere che suol darsi alla musica religiosa, sono ben lontane dall’aver senso e forma teatrale», «ecco come si può congiungere la espressione alla scienza, la passione allo studio, ecco come si può elevare la musica sacra, rendendola interprete efficace e potente del sentimento umano».

 

In foto: Il Maestro Rizzo fotografato da Rino Sivelli durante un recente concerto presso l'Oratorio della Santissima Trinità a Busseto

Dal 24 al 31 luglio a Caderzone i campi estivi di Azione Cattolica

Dopo due anni ritornano i campi estivi in montagna promossi dall’Azione Cattolica diocesana.
Quest’anno i campi si terranno dal 24 al 31 luglio presso la Casa per Ferie “Madonna della Neve” a Caderzone Terme (TN) di proprietà della Diocesi e gestita dalla Fondazione San Donnino.

Due saranno i percorsi differenziati promossi per il settore Ragazzi e per il settore Giovani. Una settimana fatta di intensa preghiera, riflessioni, incontri, gite in montagna e tanto divertimento. Per i nostri ragazzi e giovani, dopo mesi difficili passati in lockdown a causa dell’emergenza sanitaria, si tratta di un’occasione unica per vivere un tempo di qualità, crescere nella fede e confrontarsi con i propri coetanei accompagnati da un’equipe di animatori e da due sacerdoti.

Da domenica 24 aprile è possibile iscriversi compilando gli appositi moduli che saranno inviati via mail dopo aver preso contatto con un referente. Per il settore Ragazzi: Marta (Bassa Piacentina) 334.1741520; Alessandra (Fidenza) 349.7028890. Per il settore Giovani: Tommaso (Bas- sa Piacentina) 346.8725485; Mattia (Fidenza) 327.3314338.

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